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FRAGILE AMPOLLA

La pace arriverà quando gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi, soleva dire Golda Meir, quarto Premier d’Israele (1969-1974), in quella parte di mondo Lady di Ferro più della britannica Margaret Thatcher. Non abbiamo contezza di quale sia stato allora il contrappunto arabo, ma meditiamo sull’odio: esiste ancora, gli eventi successivi non lo hanno da entrambe le parti spento, resta reciproco. Con Golda Meir eravamo nello scorso secolo, situazioni nel Medio Oriente (non solo lì) ugualmente ingarbugliate generavano tensioni e conflitti, non pervenivano a una soluzione stabile. Si è andati avanti così in ogni dove, dappertutto Abele non ha eredi.

La pace? Dovremmo, come dice Khalil Gibran, sederci su una nuvola per non vedere la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Ma nessuno siede sulla nuvola e tutti hanno gli occhi fermi su confini e divisioni. In ogni tempo ed a qualsivoglia latitudine la pace è obiettivo difficile da conseguire, inoltre, quando dopo estenuanti tentativi appare raggiunta, è spesso di breve durata, altri interessi prevalgono, talora anche proprio il momento stesso in cui si sottoscrivono i Trattati di pace. Vengono così sconvolti i traballanti assetti cui si è faticosamente pervenuti dopo molto sangue, nel cuore e nella mente di entrambe le parti difficile da lavare.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        Fragile ampolla di vetro la pace, assediata da palle di ferro sul punto di scivolare verso di essa che è al centro di interessi celati e manifesti. Per questo Gianni Rodari sostiene che bisognerebbe fare la pace prima della guerra. Come? Anzitutto attraverso il dialogo aperto e costruttivo coinvolgendo mediatori neutrali (esistono i neutrali?), poi facendo partecipe il popolo con referendum, puntando inoltre sulla riduzione delle spese militari e promuovendo lo sviluppo sostenibile e la giustizia sociale (quanto è difficile!) e… e si potrebbe continuare con altri punti da tenere in conto. Invece sempre pronta è la guerra al suo lavoro distruttivo, disumano, e bisogna poi con forza gridare Pace!, per essa moltissimo e senza tregua impegnarsi.

Pensiamo che non sia il tanto ripetuto detto latino Si vis pacem para bellum ad evitare rovine e morte, ma la consapevolezza di quel che la guerra produce, la necessità pertanto di spegnere quanto è divampato. Invece dai primordi della storia umana, vale a dire da quando i sapientes  (ahi sapientes insipientes!) prevalsero sui neanderthaliani segnando di cupidigie e prevaricazioni il cammino storico, purtroppo è la guerra a dominare, sebbene in ogni parte del globo si esalti la bellezza della pace, a meno di non avere apertamente come principio la sopraffazione di coloro che, per forme ideologiche in opposizione, vengono considerati non similes, quindi da annientare. E brutali crudeltà, efferatezze e sadismo sono di tutti i tempi, basta ripercorrere le testimonianze del passato, soffermarsi sulle terribili conseguenze della intolleranza, anche da Voltaire descritte nel suo Trattato.

Sollecita a meditare il poeta, politico e storico taiwanese Li Tien Min: Non importa chi tu sia,/uomo, donna,/vecchio o fanciullo,/operaio o contadino,/ soldato, studente o commerciante;/ non importa quale sia il tuo credo politico/ o quello religioso/ se ti chiedono qual è la cosa/ più importante per l’umanità,/ rispondi/ prima/ dopo/ sempre:/ La Pace!

La Pace, soprattutto nel tempo delle armi nucleari, è offrire la possibilità all’uomo di proseguire il suo cammino sulla Terra che ha il Sole come datore di vita. Per quanto tempo ancora? Rifletteva Margherita Hack:  Il Sole ha cinque miliardi di anni, e si valuta che resterà invariato – cioè irraggerà la stessa quantità di energia – per circa altri cinque miliardi di anni, e quindi la Terra potrà ospitare la vita, se non ci distruggeremo prima, per altri cinque miliardi di anni .

Non sono pochi, riflettiamo, e intanto volgiamo il pensiero al nostro Globo: non si ridimensionano le tensioni fra gli Stati e la pace resta, per ora, speranza nebulosa. Viene infatti qua e là annunciata ma poi si alimenta la guerra della quale è per ciascuno Stato belligerante responsabile sempre solo l’altro. Eh, sì, aveva ragione lo scrittore statunitense Kurt Vonnegut: Gli esseri umani sono scimpanzè che quando si ubriacano di potere perdono il controllo. E non c’è solo il potere. Proseguono i conflitti in tante zone della Terra e quotidianamente si ripetono gli inevitabili effetti deleteri. Pertanto, sempre secondo il pensiero di Vonnegut (non è, però, solo suo) ciascuno dovrebbe alle generazioni future dire: … vi prego di accettare le nostre scuse. Eravamo ubriachi fradici di petrolio.

Torniamo alla Hack, al suo pensiero, e ci ritorna alla mente Sopra una conchiglia fossile di Giacomo Zanella, dimenticato poeta dell’Ottocento, distante dal nostro tempo; lo riprendiamo per quella speranza di trasformazioni positive che nell’uomo non viene mai meno: T’avanza, t’avanza,/ divino straniero;/ conosci la stanza/ che i fati ti diero:/ se schiavi, se lagrime/ ancora rinserra/ è giovin la Terra.  

Giovin sì la Terra, ma non aspettiamo ancora per trasformarci, troppo tempo abbiamo lasciato trascorrere nella insipientia!
Le immagini sono da Pixabay
Antonietta Benagiano
Giovedì 16 ottobre 2025 – Anno XIX