
Alpini. Aneddoti e ricordi alla ‘Galliano’ di Ceva
- 29 Settembre 2014
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Racconto breve di vita militare
Caserma ‘Giuseppe Galliano’, Ceva
Di solito, nei racconti, si parte dall’inizio. Invece, in questo racconto di vita vissuta alla caserma ‘Giuseppe Galliano’ di Ceva, vorrei partire dalla fine. Quando leggo o sento dire “ex alpino”, riferito a chi ha prestato il servizio militare negli Alpini, scuoto la testa e compatisco un po’ l’autore dello scritto o dell’affermazione. Chi ha prestato il servizio militare di leva, o per mestiere, nel corpo degli Alpini non è un ex alpino, ma un alpino in congedo.
Questo per dire che sono contento, anzi onorato di essere stato assegnato, a suo tempo, a questo glorioso Corpo “nato” il 15 ottobre 1872 per proteggere i confini montani settentrionali dell’Italia con Francia, Impero austro-ungarico e Svizzera.
Ma andiamo all’inizio, all’ormai lontano 1970, quando all’età di quasi 19 anni, il 26 febbraio, venni chiamato a Genova per la visita militare di leva presso la caserma ‘Andrea Doria’, in piazza San Leonardo, dove, quando seppi di essere stato giudicato “abile e arruolato”, chiesi di essere assegnato al corpo dell’Aeronautica, che allora io consideravo d’élite. Del resto un colonnello in pensione di quel Corpo, Giuseppe Aversa, che abitava a Savona, a 45 chilometri dalla mia Albenga, e che scriveva parole di canzoni con me (ero iscritto da pochi mesi alla Siae come autore di opere letterarie della sezione Musica, avendo superato a Milano l’esame da paroliere), mi disse: «Quando andrai a Genova alla visita militare indica come preferenza l’Aeronautica, al resto penserò io». E non si dimenticò di scrivere a chi di dovere la classica lettera di raccomandazione che io lessi con soddisfazione e con la certezza di essere accontentato. Ma quando arrivò la cartolina precetto ebbi invece un’altra certezza, quella di essere stato invece destinato al Car di Bra del corpo degli Alpini. Nella mia famiglia poi non c’erano mai stati alpini e mio padre, classe 1923, il servizio militare l’aveva prestato sì, e in tempo di guerra, ma nel corpo della Sanità.
Fortunatamente una nostra amica di famiglia, Giulia Ronco, parente con un capitano degli Alpini (Riccardo Losno) si offrì di parlargli per cercare una soluzione, per tentare un quasi impossibile cambio di assegnazione. Il capitano Losno, “Franco”, come lo chiamava lei, però le disse: «Il tuo caro Enzo ora è un alpino e alpino deve restare. Io presto servizio al Car del 2° Reggimento Alpini di Mondovì, dove si addestrano le reclute, digli di venire a Mondovì alla caserma ‘Giuseppe Galliano’».
E così nel pomeriggio del 5 febbraio 1971 (era un venerdì) anziché andare a Bra, al distaccamento del 2° Reggimento Alpini, come indicato nella cartolina precetto, scesi dal treno alla stazione ferroviaria di Mondovì dove, senza troppa diplomazia, mi caricarono letteralmente, assieme ad altri 15-20 giovani, sul cassone di un camion con destinazione Mondovì Piazza, caserma ‘Giuseppe Galliano’.
Il capitano Losno lo vidi solo 4-5 volte, ma il fatto di poter parlare anche solo per pochi minuti con lui nel nostro dialetto ligure di Albenga mi dava la sensazione di essere “a casa”. Poi scoprii che in caserma c’era anche un altro militare di Albenga, il sergente Giuseppe Negro, e le cose migliorarono di parecchio, almeno dal punto di vista psicologico. E non era cosa da poco per me, per giunta figlio unico.
Dopo l’addestramento come recluta alpina (facevo parte della compagnia Belluno, comandata dal capitano Corrado Ghezzo) e il rituale giuramento, anziché essere trasferito a Paluzza o da quelle parti, come quasi tutte le altre “burbe” (così venivano chiamati dai “veci” i giovani che avevano iniziato da poco tempo il servizio militare), fui assegnato al plotone Comando, cioè al quadro permanente, e inserito nell’equipe del maresciallo Pietro Sciandra, un omone alto e pacato. Poi ebbi la grande fortuna di conoscere il tenente colonnello Cesare Orsini, comandante del Battaglione Cadore del 2° Reggimento Alpini, che ben volentieri portavo ogni tanto con la mia Fiat 500 a Pietra Ligure dove aveva un appartamento.
E per me la vita di caserma a Mondovì Piazza trascorreva serenamente senza troppi sussulti. Ricordo che la decade (la paga che i soldati semplici ottenevano dallo Stato ogni dieci giorni) era di 1580 lire e che con quella somma ci potevamo permettere, logicamente ogni dieci giorni, il prezzo del biglietto di andata e ritorno della funicolare che portava da Piazza a Breo e, gaudium magnum, una cena per militari in una trattoria della zona. La cosa più bella però era quella che, abbastanza frequentemente (1-2 volte al mese), ottenevo dei permessi di 36 ore (dalle ore 12 del sabato alle 24 della domenica) per recarmi ad Albenga dai miei genitori e dai miei amici.
Però, si sa, ogni tanto, quando meno te l’aspetti, accade qualche imprevisto, arrivano delle novità e le novità non sempre sono piacevoli, almeno al primo impatto. Infatti un bel giorno il tenente colonnello Orsini mi convocò nel suo ufficio per dirmi: «Si è liberato un posto come aiutante di sanità nella caserma di Ceva dove c’è il nostro distaccamento con la compagnia Pieve di Cadore, ti mando là. È un bell’incarico”. Ci rimasi molto male in quanto a Mondovì, tutto sommato, ci stavo bene e poi avevo la possibilità di andare a casa con una certa frequenza. Chissà come mi sarei trovato invece nella caserma di Ceva? Dopo essermi ripreso da quell’inaspettato ko, presi coraggio e mi rivolsi a lui dicendogli: «Signor colonnello, per favore mi lasci qui a Mondovì. Con il maresciallo Sciandra mi trovo bene, è un brav’uomo. E poi anche con i miei compagni c’è un buon affiatamento. La prego, signor colonnello, mi lasci qui a Mondovì!». Lui sorrise e mi disse: «Caro alpino, un ordine è un ordine e gli ordini si eseguono e non si discutono. Vedrai che mi ringrazierai perché andrai a stare ancor meglio. E poi ogni tanto verrò giù a Ceva con la jeep e con la tua spider (chiamava così la mia Fiat 500 L, color azzurro acquamarina, targata SV 101349) andremo giù in Liguria, io a Pietra Ligure e tu nella tua Albenga».
Con un nodo in gola ma un pochino più sereno, mi misi sull’attenti e battendo i tacchi, come si usava allora, dissi: «Signorsì!». Lui sorrise nuovamente e concluse il colloquio dicendomi: «Puoi andare». Il giorno seguente salutai gli amici e caricai sulla mia Fiat 500 la borsa-valigia con le mie cose e quasi a passo d’uomo percorsi i 25-26 chilometri che separano Mondovì da Ceva per ritardare il più possibile il mio arrivo alla nuova destinazione.
La caserma ‘Giuseppe Galliano’ di Ceva, vista da fuori, mi fece subito una buona impressione. Forse il tenente colonnello Orsini non aveva torto… Alla ‘Galliano’ trovai un mio fratello di naja del 1°/1951, Aldo Piccardo di Andora, cuoco diplomato all’Istituto alberghiero di Alassio, naturalmente chef della brigata cucina ed il sorriso tornò sulle mie labbra. In infermeria, luogo dove avrei svolto il mio incarico, come responsabile c’era il sottotenente Amerigo Oliva di Vasto, grande tifoso della Juventus e della Pro Vasto (squadra della sua città che allora militava in serie C), un bravo medico, una brava persona.
La caserma non era molto grande, i militari erano pochi, forse una cinquantina a forza minima, un 250-300 quando c’erano le reclute per l’addestramento.
Comandante, padre-padrone del distaccamento, il capitano Bruno Barberis, un grande uomo (chiuderà la brillante carriera militare nel gennaio 1989 con il grado di generale), coadiuvato dal tenente Ernesto Arlati che lo sostituiva durante le rarissime sue assenze (cioè, quasi mai). Poi ricordo un maresciallo anziano, Basilio Sardo, e un sergente maggiore giovane, Claudio Valente. Trovai anche un paio di futuri sergenti che erano arrivati da pochi giorni provenienti dalla Scuola militare alpina di Aosta: Bruno Roà, che al congedo si raffermerà scegliendo così la carriera militare diventando poi primo maresciallo e, al congedo, sarà eletto sindaco di Castellino Tanaro per due mandati, e Beppe Garrone, destinato a prestare il servizio militare di leva a Ceva per i suoi “meriti sportivi” (era, infatti, un cebano e una colonna insostituibile della difesa della locale squadra di calcio, l’Ama Brenta Ceva).
E in questa caserma, con queste persone (e, naturalmente, con tante altre) restai fino al 15 aprile 1972, data del mio congedamento. Un ricordo di quel periodo? Tanti sono i ricordi, molti dei quali belli (le cene che spesso facevamo con Aldo Piccardo e gli altri amici; i buoni rapporti con i cittadini cebani; la licenza che il capitano Barberis mi firmò nel settembre 1971 per potermi recare a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze, al Pinocchietto d’Oro, un festival di canzoni per bambini, dove una mia canzone, L’allenatore, era giunta in finale e premiata con l’incisione su disco 45 giri che, ben fiero per quel brillante risultato, non mancai di portare al capitano per i suoi due bambini, un maschio e una femmina), alcuni meno belli (il freddo intenso nei mesi invernali; i servizi di guardia, frequentissimi quando non c’erano le reclute; non aver potuto assistere il 26 febbraio 1972, naturalmente solo davanti al televisore, alla finale del festival di Sanremo vinto da Nicola di Bari con I giorni dell’arcobaleno, canzone scritta dal mio amico e allora collaboratore Dalmazio Masini di Firenze, in quanto ero rinchiuso nella camera di rigore per una scappatella) ed uno, purtroppo, bruttissimo. E proprio di quest’ultimo episodio narrerò più dettagliatamente, cercando di ricostruire, a distanza di oltre quarant’anni, il dramma accaduto in quel triste giorno.
I militari, si sa, anche in tempo di pace devono essere addestrati con le armi. Noi alpini della ‘Galliano’ di Ceva, come gli alpini della ‘Galliano’ di Mondovì, per l’addestramento con il fucile (Garand) e con il mitragliatore (Mg) ci recavamo, partendo di mattina presto, e nei mesi invernali con un freddo cane, sui cassoni dei camion al poligono di tiro di punta Tamerla, ubicato sul territorio del comune di Frabosa Sottana, un paese a circa 30 chilometri da Ceva. Ricordo il freddo e la fatica nella marcia (che fortunatamente durava solo un’oretta) dal piazzale dove si lasciavano gli automezzi fino al poligono. A turno, poi, si doveva portare il mitragliatore Mg che pesava circa 12 chili e che, metro dopo metro, diventava sempre più pesante. Però il poligono era anche luogo di soddisfazione quando si riusciva a fare un buon punteggio centrando le sagome-bersaglio o anche quando, più semplicemente, arrivava il proprio turno per accaparrarsi un paio di ottimi panini con il salame o il prosciutto e una bibita che Stefano, il proprietario di un ristorante di Frabosa Sottana, forniva ai militari dal suo gabbiotto posizionato poco fuori dalla zona di tiro. E al poligono di punta Tamerla tutto filò sempre via liscio senza particolari problemi, fatica e freddo a parte, ma quello, lo si sapeva, faceva parte del gioco o meglio della vita dei soldati.
Per il lancio di bombe a mano invece noi della compagnia Pieve di Cadore di Ceva ci recavamo sul greto dell’argine destro del fiume Tanaro, in località Nosalini, non molto distante dalla caserma. Eravamo in ottobre-novembre del 1971 (non ricordo con precisione il giorno), la giornata era plumbea e fredda, c’era la neve e il fiume in alcuni tratti era ghiacciato, tutto era stato preparato nel migliore dei modi ed alcuni alpini erano stati posizionati in veste di sentinelle ai quattro lati della zona destinata al lancio delle bombe a mano Srcm. Le prime bombe furono lanciate con buona manualità dalle reclute, quando però venne il turno della recluta A.B. (lo chiamerò così), un ragazzo veneto di Schio, orafo nella vita civile, uno dei più preparati nell’addestramento, il diavolo volle metterci lo zampino. In che modo? Presto detto: dopo aver tolto la sicura alla bomba, il ragazzo, a causa probabilmente della neve ghiacciata, perse l’equilibrio e la bomba, che nel frattempo gli era sfuggita di mano, cadde a terra esplodendo fra i suoi piedi. Lui, che istintivamente si era piegato per tentare in qualche modo di allontanarla, fu colpito al volto dalle schegge e in un attimo ebbe tutto il volto coperto dal sangue. A.B. fu prontamente soccorso dai sanitari presenti e portato con l’ambulanza militare all’ospedale civile di Ceva, dove gli furono praticate le prime cure, e poi trasferito d’urgenza prima all’ospedale di Cuneo e poi al più attrezzato ospedale Oftalmico di Torino. Purtroppo questo episodio non finì bene in quanto A.B. perse l’occhio destro e per lui il servizio militare di leva terminò in anticipo e nel peggiore dei modi. E questa, a mio parere, è stata sicuramente una delle pagine più nere della caserma ‘Galliano’ di Ceva, almeno per quanto riguarda il periodo fine anni Sessanta/inizio anni Settanta.
Sono passati 40 anni e più, però mi sento sempre un “Alpino” (mi sia consentita la lettera “a” maiuscola per questo sostantivo, anche se è un errore di ortografia), non un “ex alpino”, e quando posso torno volentieri a Ceva, perché sono rimasto molto affezionato a questa cittadina bagnata dal Tanaro, e quando sono lì non manco mai di recarmi in piazza d’Armi (ora però si chiama piazza della Libertà) a dare un’occhiata con affetto e un po’ di nostalgia alla “mia” caserma e in particolare alle finestre del primo piano che si affacciano su via di Porta Tanaro, dove allora c’era la “mia” infermeria.
Gen. Bruno Barberis e Vincenzo Bolia (Ceva, 9 giugno 2012)
I tempi sono cambiati, non esiste più il servizio militare di leva, ora nella ‘Galliano’ non ci sono più gli Alpini, ma fortunatamente al suo interno c’è ancora vita in quanto è utilizzata come Centro di formazione del Corpo forestale dello Stato per corsi e convegni. E con grande piacere, ultimamente, il 20 settembre di quest’anno, ho potuto nuovamente “viverla”, questa volta però non come alpino ma come giornalista (la professione che svolgo), grazie ad un corso di aggiornamento dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte che aveva come tema “Comunicare l’ambiente con il Corpo forestale dello Stato”. L’organizzazione di questo evento è stata perfetta e, ciliegina sulla torta, tutti i partecipanti hanno avuto la possibilità di consumare il “rancio” all’interno della mensa della caserma; questa volta però non c’erano i miei compagni alpini di allora, ma in un certo senso forse sì perché era presente Bruno Roà, allora sergente, che li rappresentava tutti, proprio tutti, anche il mio caro amico Aldo Piccardo di Andora, lo chef, volato in Cielo nell’aprile del 2007 a seguito di un incidente stradale e che da Lassù, con i suoi baffoni neri e con in testa il cappello alpino con la nappina rossa e la penna nera “stanca”, sicuramente si gustava la scena e, forse, anche il “rancio”.
Vincenzo Bolia *
* Alpino (1°/1951) in forza alla caserma ‘Giuseppe Galliano’ di Ceva nel 1971/72
Lunedì 29 settembre 2014 – Anno VIII