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Albenga. Nella fredda giornata di lunedì 12 febbraio, intorno alle 8 della sera, nel suo letto, nella sua Arbenga, in punta di piedi com’era nel suo stile, u Ciüfettu, al secolo Francesco Isoleri (nella foto di Liguria 2000 News), ci ha lasciati dopo una lunga malattia ed Albenga ha perduto non sono un brav’uomo, qual lui era, ma anche un personaggio caratteristico che ormai, purtroppo, non esiste più. Francesco era un grande albenganese, grande nella sua normalità, nella sua semplicità ma anche con il suo carattere che lo portava sempre a dire “pane al pane e vino al vino”.

Era una bella persona, franca, schietta, sincera. Era il classico ‘campagnolu’ di una volta. Un contadino vero, non il proprietario terriero (nu in campagnolu rìccu), un uomo che doveva ogni giorno dell’anno, con il suo sudore e con tanta fatica, far nascere e crescere gli ortaggi che lui aveva seminato: tumate, articiocche, carotte, spaȓeghi… prodotti coltivati all’aperto e inte stüffe, quelle fatte cun e vedrine per proteggere gli ortaggi nei mesi più freddi dell’anno. Era rimasto ortolano anche quando nella Piana molti avevano abbandonato l’agricoltura cosiddetta tradizionale, diventata sempre meno redditizia, per passare prima alla floricoltura e poi alle piantine nei vasetti.

Francesco, nato il 18 gennaio del 1935, era dovuto diventare adulto presto, troppo presto, in quanto suo papà, Giuseppe, nato ad Albenga nel 1898, all’età di 46 anni, il 19 aprile 1945, pochi giorni prima della Liberazione, era deceduto a causa “de ina spina d’articiocca” – così mi aveva raccontato lui –  che probabilmente gli aveva causato il tetano, bruttissima malattia che in poco tempo lasciò orfani  Francesco (10 anni), le sue sorelle Angela (16 anni) e Renza (19 anni) e vedova la moglie Rita Chiardola (39 anni). Dopo il brutto periodo vissuto a causa della  Seconda guerra mondiale, per Francesco un nuovo traumatico evento,  la prematura morte del padre per una malattia oggigiorno curabilissima. La mamma Rita però, con l’aiuto dei figli, prese in mano la situazione e da grande persona qual era seppe portare avanti la famiglia con capacità. La famiglia Isoleri abitava nel centro storico (int’Arbenga), in vico dell’Annona, e lì rimase fino all’aprile del 1966, fino a quando la mamma di Francesco non riusciva più a salire le ripide scale della vecchia casa; si trasferirono  quindi in via Dalmazia, nel più comodo palazzo Emilia, dotato di un ascensore. Il centro storico rimase comunque nel cuore du Ciüfettu,  che sempre frequentò fino a quando la salute glielo consentì.

Francesco era un autentico fieu di caruggi, anche se nei vicoli ci stava ben poco in quanto, pur essendo poco più di bambino, aveva dovuto dare il suo contributo ‘inte tère’, con il suo cane Alì ed il cavallo Ninnu, per aiutare la famiglia ad andare avanti. U Ciüfettu non ha mai potuto praticare sport, ma era però un po’ tifoso del Milan e mi diceva: “Mì e sun da leva de Cudicini”, ossia del 1935, la stessa del Ragno nero, il grande portiere del Milan degli anni Sessanta. Lui era soprattutto un tifoso dell’U.S. Albenga, quella di Testa e Celiberti, per citare solo due nomi: molte furono le partite che vedemmo insieme al “Riva”, non in tribuna però, ma dietro alla porta della squadra avversaria, insieme ai favolosi tifosi del bar Negro. Richiamavamo spesso alla mente la mitica Albenga-Viareggio 4-2 del 5 novembre 1965, una bellissima vittoria in rimonta contro una squadra fortissima, forse la più bella partita dell’Albenga in tutta la sua lunga e gloriosa storia (quasi come Italia-Germania 4-3 del 17 giugno 1970, semifinale del campionato mondiale di calcio, allo stadio Azteca di Città del Messico). Ed anche il derby  Albenga-Sanremese del 20 febbraio 1966, finito 1-1, con un finale ad alta tensione a causa dell’arbitro (Mascali di Desenzano del Garda che poi arrivò ad arbitrare in serie A) che, dopo una direzione di gara a senso unico ossia a favore dei matuziani, non contento, si inventò un rigore all’ultimo minuto contro l’Albenga e la Sanremese raggiunse l’immeritato pareggio, un vero e proprio furto a seguito di quella palese ingiustizia; si accese quindi un incontenibile parapiglia che durò oltre due ore con l’intervento massiccio dei carabinieri e con l’arbitro che, per limitare i danni, fu poi scortato fino alla stazione ferroviaria di Finale Ligure. Ricordavamo bene, a distanza di 50 anni, anche la partita in trasferta del 21 novembre 1971, ad Asti (avevo 20 anni ed ero militare negli alpini), con l’Albenga che uscì sconfitta per 3-1, ma la giornata era freddissima, specie per noi albenganesi, e tra gli astigiani c’era un ragazzino di 17 anni, Giancarlo Antognoni,  che poi giocò lungamente in serie A con la maglia della Fiorentina ed anche in Nazionale.

Tornando a Francesco, bisogna dire che la sorte non ha voluto che si sposasse e che avesse figli, troppo era l’impegno ‘inte tère’ ed anche l’amore e il rispetto per mamma Rita che non ha mai voluto lasciare sola. Era anche molto legato alle sue due sorelle, Renza e Angela, ed ai suoi nipoti Marinella, Giuseppina e Sergio. Ed anche la prematura morte di Sergio, all’età di 39 anni, con due figlie in tenera età (Silvia e Paola), attestò anche in questo caso che la sorte non fu proprio benigna nei riguardi della famiglia Isoleri,  e questo triste evento lo colpì non poco. U Ciüfettu non era mio parente, ma molto di più: eravamo amici per reciproca scelta; per me era un fratello maggiore e gli volevo bene; lo conoscevo e frequentavo da tantissimi anni, dal 1960, lui aveva 25 anni ed io solo 9 o 10), e gran parte della nostra vita l’abbiamo vissuta quasi fianco a fianco. Francesco (U Ciüfettu) faceva parte della nostra Veggia Arbenga ed era onorato di esserne anche solo un semplice socio, lui che era entrato a fare parte del nostro sodalizio nel lontano aprile 1978, pochi giorni dopo la fondazione.

Ai familiari e agli amici vanno le più sentite condoglianze del presidente, del direttivo e dei soci della Veggia Arbenga e, naturalmente, quelle mie personali per la perdita di una così brava e stimata persona.

Ripoṡa in paxe, Ciüfettu! …e che a tèra (che ti ti l’èi dèlungu travaïau) a te secce legeȓa.

Articolo pubblicato su ‘A veggia Arbenga’, marzo 2024
(Vincenzo Bolia)